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Il Boscaiolo

di Giovedì, 19 Giugno 2014
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Il lavoro nei boschi è un altro di quei lavori che hanno interessato la nostra piccola comunità fin dai tempi più antichi. L'abbondanza di legname, soprattutto larici ed abeti,  presente nei boschi che circondano l'abitato di Cimego, ha infatti sempre rappresentato un ineludibile punto di riferimento per l'economia locale.
Nel corso degli anni, numerosi sono stati gli uomini che, per scelta o per necessità, hanno scelto la professione del "borér", cioè del boscaiolo che si dedicava al taglio, alla pulitura ed al trasporto sulla strada delle "bore" (tronchi di pianta ad alto fusto). Il Sentiero quindi non poteva evitare di dedicare un apposito settore anche a questo pesante e faticoso lavoro.

La giornata del boscaiolo incominciava all'alba quando partiva da casa per recarsi sul posto di lavoro, generalmente a piedi, percorrendo un tragitto che poteva richiedere anche un'ora di cammino. Il lavoro iniziava alle otto del mattino, dopo che il caposquadra aveva dato a tutti le eventuali direttive e proseguiva ininterrottamente per circa un'ora e mezza; verso le nove e mezza veniva fatta una piccola pausa di un quarto d'ora per riposare e mangiare un boccone. Riprendeva poi fino a mezzogiorno quando il cuoco aveva ultimato la preparazione della polenta, un alimento sempre presente nella dieta dei boscaioli. La pausa per il pranzo durava un'ora, ma poteva essere prolungata esistendo di fatto una certa flessibilità nell'organizzazione del lavoro, che prevedeva in ogni modo un'attività giornaliera di otto ore. Mangiando la polenta calda accompagnata dal companatico che ognuno si portava da casa, i boscaioli riprendevano le forze per affrontare le rimanenti quattro ore. Finito di mangiare, c'era ancora il tempo per schiacciare un pisolino all'ombra di un abete, ripensando magari alle difficoltà incontrate durante la mattinata. Il lavoro riprendeva nel primo pomeriggio e continuava fino a sera senza più interruzioni se non quelle per dissetarsi e fumare una sigaretta. Al termine della giornata gli attrezzi venivano nascosti sotto le frasche degli alberi abbattuti e gli uomini facevano ritorno alle loro case.
La bravura del borér era affidata alla bontà e all'efficienza degli arnesi che egli adoperava. Ne ricordiamo quattro: il "zapì" (zappino), la "segür streta", la "segür larga" (scure larga e scure stretta) e il "segù" (sega lunga). Quattro arnesi semplicissimi, ma quattro capolavori di efficienza se erano ben tenuti e se erano nelle mani di un lavoratore abile.
Il zapì poteva darsi che fosse quella leva con la quale un certo grande uomo disse che avrebbe potuto sollevare il mondo. E infatti ti dava l'impressione di un atrezzo capace di fare cose miracolose. bastava il tocco leggero del zapì perchè grossi tronchi pesanti quintali girassero su se stessi, si spostassero avanti  e sui lati come se fossero fuscelli di paglia. Un colpetto in testa, puntando la leva in terra, e un tronco gigante si spostava a destra o a sinistra e si metteva a scivolare verso il basso.
C'erano a volte nel bosco degli intrichi di tronchi accatastati e incrociati che nessun gigante nerboruto sarebbe riuscito a sciogliere. Bastava il zapì nelle mani di un borér e si vedevano quei tronchi pesanti venir liberati uno alla volta con la delicatezza con cui una ricamatrice mette in ordine un pizzico di spilli.
La scure stretta e la scure larga erano altri due arnesi che facevano il bravo boscaiolo, due arnesi che funzionavano alla perfezione e facevano un lavoro incredibile se venivano mantenuti sempre affilati e se si usavano con destrezza. Non è che richiedessero frequenti affilature se non venivano battuti contro i sassi o per terra. Bastava una buona affilatura fatta con la lima alla fine della settimana. L'abbattimento degli abeti veniva fatto con la scure stretta, mentre con la scure larga si "sramava", cioè si tagliavano i rami.
Se il taglio e la pulitura dei tronchi si facevano la primavera, quando le piante erano "in amore" e la corteccia si staccava facilmente, si aspettava poi l'autunno per sezionare i tronchi (l'estate infatti li avrebbe resi più leggeri). Era in questo frangente che si usava il segù (grande sega).
 

(sintesi da: Delio Brigà, La fata Gavardina, Publiprint Editrice)

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Il Taglio

Uno dei lavori più impegnativi, per il quale era richiesta una maggiore esperienza e professionalità, era quello dell'abbattimento degli alberi. I borér si disponevano a coppie intorno alle piante martellate dall'autorità forestale. Prima di iniziare il taglio, levavano la corteccia fino all'altezza che potevano raggiungere con la scure. Decidevano poi in quale punto far cadere la pianta senza danneggiare quelle circostanti. Si disponevano uno di fronte all'altro su due lati opposti del tronco e segnavano la circonferenza orizzontale che dovevano seguire per potersi incontrare con due tagli al centro della bora. Tale circonferenza doveva essere più vicina possibile al terreno, per lasciare una ceppia bassa e conforme alle disposizioni forestali. Era necessario che il taglio di uno dei due borér fosse rivolto verso la direzione che la pianta doveva seguire nella sua caduta. Cominciava quindi il lavoro di abbattimento. Le due scuri cadevano ritmicamente sul tronco facendo saltar via ogni volta un pezzo di legno e producevano due incisioni triangolari che affondavano sempre di più verso l'interno. Cadevano sempre con grande precisione. I due tagli triangolari opposti sulla "bora". Man mano che il lavoro procedeva, il taglio veniva allargato verso l'alto, mentre in basso si seguiva sempre la stessa linea orizzontale.Quando le due ampie incisioni stavano per incontrarsi, sospendevano il lavoro e controllavano la direzione di caduta. Ora il gigante stava diritto come una candela, sospeso ad un sottile "nervo" centrale dello spessore di due centimetri o poco più. Pareva impossibile che quel sottile strato di legno riuscisse a tenere in piedi una massa enorme. Bastava ora un solo colpo di scure per far cadere il gigante, ma il colpo doveva essere dato nel punto giusto, quel punto che i borér stavano studiando con attenzione. La scure si abbatteva. Il grande albero si inclinava leggermente e silenziosamente, poi aumentava la velocità, si infilava nello spazio vuoto fra gli alberi circostanti, precipitava al suolo con rumore di rami che si schiantavano e col crepitio del nervo che si rompeva sulla ceppaia. La pianta giaceva al suolo inerte, incastrata fra quelle vicine. Non si comprendeva come avesse potuto incunearsi in quel poco spazio senza arrecare danni. C'erano casi nei quali l'albero si presentava inclinato, ma, per non danneggiare altre piante, si doveva decidere di farlo cadere proprio dalla parte opposta a quella dell'inclinazione. Sembrava una cosa irrealizzabile, specialmente per piante molto grosse e alte. Ma i borér conoscevano il sistema per vincere la resistenza di quella gran massa inclinata. Invece di fare due incisioni allo stesso livello, che si incontrassero al centro, tenevano più basso il taglio dalla parte opposta a quella dell'inclinazione. Alla fine, con un po' di spinta, l'albero si raddrizzava in piedi e poi cadeva nel punto che era stato prescelto. Dopo l'abbattimento, bisognava sramare e scortecciare e queste due operazioni erano le più lente. Se in una mezz'ora si era abbattuta una pianta, ne occorreva almeno una per ripulirla. Usando la scure larga si tagliavano i rami. La punta dell'albero (cimal) non veniva sramata. La si lasciava come era fino all'autunno, quando si sarebbe fatta la sezionatura. In questo modo continuava la traspirazione e le bore restavano più leggere. In autunno, i tronchi venivano sezionati usando il segù (segone). La lunghezza tradizionale delle bore era di quattro metri, ma, se il tronco era particolarmente bello, cioè se si presentava quasi cilindrico, con piccole differenze di diametri alle due estremità, si tagliavano bore più lunghe, le così dette piane, che potevano essere dai cinque ai 15 metri. Da esse si ricavavano travi. Finita la sezionatura, c'era la misurazione da parte del Comune e dell'autorità forestale.
In seguito si cominciava quel lavoro difficile ed impegnativo che era l'abbassamento a valle dei tronchi per mezzo di speciali condotte.

(sintesi da: Delio Brigà, La fata Gavardina, Publiprint Editrice)

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La Soeonda

Quale metodo adottavano i borér per far discendere il legname a valle o sulla strada nel periodo anteriore alla comparsa delle teleferiche? C'erano due tipi di condotta per le bore: la soenda e il söl. La soenda era sopraelevata, il söl era adagiato sul terreno (la parola söl significa suolo). La prima si costruiva per far attraversare al legname valli rocciose e costoni ripidi. Era difficile da costruire e richiedeva più tempo e maggior spreco di legname perchè viaggiava sopraelevata, sostenuta dai così detti cavài (cavalli). E' chiaro che quando era possibile si costruiva un söl e non una soenda. Nella soenda i cavalli sostenevano una specie di canale aereo. Ogni cavallo era costituito da cinque tronchi: due punte piantate nel terreno, un capél che lo sormontava e due òntene, cioè due rinforzi laterali obliqui. I cavalli erano distanti uno dall'altro quattro metri, in quanto le misure normali delle bore che servivano per costruire la condotta erano di quattro metri. Il canale sopraelevato che formava la soenda era costituito da cinque tronchi per ogni "campata" (la distanza fra due cavalli successivi): tre cimali che formavano il letto e che venivano chiamati fondì e due bore laterali dette sponde. La punta del fondì veniva assottigliata e fatta entrare in un incastro praticato nei piedi dei fondì della campata superiore. Era importante che l'incastro fosse sufficientemente profondo, in modo che la punta non emergesse da esso, anzi rimanesse leggermente più bassa. In tal modo, le bore in arrivo trovavano un leggero salto e nessun ostacolo alla loro corsa. Il söl era una soenda adagiata sul terreno e non esistevano quindi cavalli. Per impedire che le sponde venissero spinte verso l'esterno dai tronchi in arrivo, si mettevano dei rinforzi costituiti da sassi e da altri tronchi di legname. Mentre il söl poteva avere anche forti pendenze, la soenda si costruiva con inclinazioni leggere e sempre regolari. Dovrebbe apparire evidente che le curve della condotta dovevano essere dolci e aperte, per impedire che la forza delle bore in discesa spingesse all'esterno le sponde. 

(sintesi da: Delio Brigà, La fata Gavardina, Publiprint Editrice)

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La Teleferica

Era veloce e anche abbastanza facile l'abbassamento dei tronchi quando soende e söl erano stati costruiti. Ma per costruirli, quanto tempo e quante fatiche! C'erano condotte lunghe anche due chilometri e più. Occorrevano enormi quantità di legname e ne veniva sprecato parecchio negli incastri delle soende e nella costruzione dei cavalli. L'apparizione della teleferica facilitò il lavoro del borér e ridusse lo spreco del legname, ma non eliminò i pericoli. Le teleferiche per il legname erano costituite da due funi fisse e da una mobile. La fune portante, cioè quella su cui si caricavano i tronchi, era la più grossa ed aveva un diametro variante tra i 18 e 24 millimetri; la fune di ritorno, cioè quella che riportava in alto le carrucole e le catene, poteva avere diametri dai 12 ai 16 millimetri. La fune traente, più sottile delle due portanti, era mobile e girava su grosse pulegge alla stazione di partenza e a quella di arrivo. Nel suo movimento trascinava con sè i carichi ai quali era ancorata per mezzo di robusti "anelli spaccati". Nelle teleferiche per il legname, non esisteva, di solito, il motore ed il movimento era generato dal peso dei carichi in discesa, i quali erano almeno due, ma potevano essere anche dieci o dodici. Le due funi fisse erano solidamente ancorate alla stazione di partenza e a quella di arrivo. Si costruita la teleferica e poi si prendevano decisioni per il trasporto delle funi. Esse potevano essere trascinate in alto con un argano oppure portate a spalla dagli operai. In questo caso occorreva anche una cinquantina di persone e talvolta accettavano perfino le donne, pur di guadagnare una lira. Nel giorno stabilito per il trasporto, tutti gli operai si riunivano nel luogo dove erano state depositate le funi. Il primo operaio si metteva sulle spalle una matassa di circa 40 chili. Si svolgevano altri due o tre metri di fune e poi si formava una seconda matassa eguale alla prima che veniva affidata ad un secondo operaio. Si continuava così fino a quando tutta la fune era stata svolta. Si formava una lunga fila di operai col loro carico sulle spalle distanziati di due o tre metri l'uno dall'altro. La fune portante veniva trasportata per prima. Essa era la più grossa e quindi la più pesante. Quando tutti erano pronti, col loro carico sulle spalle, si metteva in moto la lunga fila di operai che cominciavano ad inerpicarsi sulla montagna, seguendo sentieri impervi e ripidi. Durava molte ore quella difficile salita. Con queste modalità venivano trasportate sulla sommità della montagna le tre funi: la fune portante, la fune di ritorno e la fune traente. Allestita la teleferica, poste in trazione le funi, controllato il corretto funzionamento del tutto, si procedeva al trasporto dei tronchi a valle. Questi venivano legati con catene e appesi alla fune portante per mezzo di carrucole. Il carico giunto in fondo veniva staccato da altri borér, i quali tolte le catene e le carrucole le appendevano sulla fune di ritorno, affinchè fossero ricondotte in alto per essere di nuovo utilizzate. E' sempre stato pesante e pericoloso il mestiere del borér. Lo era quando si usava la scure e lo è tuttora che si usano le potenti motoseghe. Lo era quando il legname si abbassava con soende, söi e teleferiche e anche oggi con i moderni e perfetti autopescanti. Ma una volta, oltre che pesante e pericoloso, era anche mal pagato.

(sintesi da: Delio Brigà, La fata Gavardina, Publiprint Editrice)